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Detroit: Become Human

Detroit: Become Human è un videogioco d’avventura sviluppato dal team francese di Quantic Dream per PlayStation 4 (era esclusiva temporale) e arriverà su PC nel corso di quest’anno. E’ stato pubblicato il 25 maggio del 2018, ma sono finalmente arrivato ai suoi titoli di coda più di un anno dopo a causa di impegni redazionali e lavorativi che non sto qui a raccontarvi.

Il miglior videogioco di Quantic Dream, sia per vendite al lancio che per vendite totali, “chiude” quella che potremmo definire una trilogia di “film interattivi” che gli sviluppatori, guidati da David Cage e Guillaume de Fondaumière, hanno realizzato per Sony tra PlayStation 3 e PlayStation 4: si era partiti con Heavy Rain e proseguiti con Beyond: Two Souls. Trilogia non in senso di narrazione sviluppata in tre atti, ma di tre opere tutte slegate tra loro ma realizzate dalla stessa squadra, per lo stesso produttore.

Come ho scritto in apertura, il genere di appartenenza di Detroit: Become Human è quello delle avventure grafiche un po’ per esclusione, visto che non risponde a nessuno stilema di altri generi di videogioco. Personalmente parlando, però, per me un’avventura grafica non è tale se non risponde ai canoni imposti dalle mitiche avventure LucasArts e Sierra, come ai celebri Monkey Island e King’s Quest.

I lavori di Quantic Dream, più che avventure grafiche, li etichetto come “film interattivi”: ci sono dei tempi di scena molto ristretti, nei quali il giocatore deve compiere un’azione o effettuare una battuta di dialogo senza pensarci troppo. Nei momenti più concitati occorre dare l’input giusto (muovere la levetta in una direzione precisa, oppure premere o tener premuto un pulsante) nell’istante giusto: questo in gergo, da anni, si definisce “quick  time event” e sono pochissimi i videogiochi che lo adottano, ormai (mi viene in mente solo Spider-Man dei più recenti). Nei lavori di Quantic Dream, i quick time events si sprecano, se ne fa un larghissimo uso.

Il “film” scritto e diretto da David Cage manda avanti tre storie parallele ambientate in una Detroit del 2038, anno in cui l’industria cibernetica ha sdoganato gli androidi e il mondo ne usa milioni per i compiti più disparati: da quelli casalinghi a quelli militari passando per ogni singola esigenza che vi possa venire in mente. I protagonisti indiscussi della storia sono Connor, Kara e Markus, tra i primi esemplari a sviluppare un libero arbitrio, che spaventa gli esseri umani e instilla il sospetto che una macchina, alla lunga, potrebbe provare dei sentimenti: un discorso molto diverso dal simularli semplicemente.

Al giocatore, come da copione, vengono affidate scelte sempre più importanti e pesanti, con profonde implicazioni morali/etiche. Condannare o assolvere, uccidere o risparmiare sono tra le scelte più gravose, ma non mancano quelle un po’ meno stressanti, come il rapportarsi pacificamente o violentemente, rispondere in tono deciso o conciliatorio, essere dubbioso o determinato di fronte ad una questione, e così via. I bivi narrativi, in Detroit: Become Human, sono sempre dietro l’angolo e ogni nostra scelta va a disegnare una trama che ne rispecchi l’andamento.

Per scelta personale non tornerò a rigiocare questo titolo, perché ho sempre affrontato i lavori di Quantic Dream come la visione di un film: li ho giocati sempre d’istinto, immedesimandomi nei protagonisti oppure volendone dare un carattere preciso. A tal proposito devo segnalare che in pochi casi, la descrizione del tipo di battuta da scegliere (per esempio: dubbioso, determinato, nessun dubbio etc) non mi ha aiutato a capire che reazione avrebbe adottato il personaggio sotto il mio controllo, sottoponendolo a battute talmente contraddittorie da farmi storcere il naso. Per fortuna nessuna scelta “intermedia” è irreparabile, mentre lo sono quelle che spesso preannunciano la fine della scena: in quei casi, se non stessimo attenti, personaggi principali o secondari (a cui, magari, ci affezioniamo) potrebbero trovare morte certa.

Il sistema di controllo l’ho trovato molto reattivo e preciso durante i già descritti quick time events. Quando il movimento dei personaggi e la (blanda) esplorazione ambientale è affidata al giocatore, invece, è stato poco piacevole vedere il personaggio “incepparsi” di fronte a degli ostacoli, anche invisibili oppure girare inspiegabilmente su sé stesso per tornare sui propri passi. Piccoli nei che interrompevano il flusso della scena, rendendola poco realistica, ma – personalmente – del tutto trascurabili.

Alla fine dei titoli di coda, Detroit: Become Human mi risulta essere il punto più alto delle produzioni Quantic Dream. La storia raccontata è tremendamente attuale, metaforica e allegorica. Spinge al pensiero e ad interrogarsi su come mandiamo avanti la nostra vita e come ci comportiamo con ambiente e persone che ci circondano e lo fa molto meglio di come è stato fatto in Heavy Rain e Beyond: Two Souls, a mio parere.

Una cosa è certa: come le migliori storie da leggere, da vedere al cinema o da “vivere” nei videogiochi, Detroit: Become Human lascia il segno e non si dimentica tanto facilmente.

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