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Il miglior gioco dell’anno non esiste

Quel periodo che va da settembre e finisce – certi anni – anche prima di dicembre, è quello che ogni videogiocatore passa a godersi gli ultimi “botti” dell’annata. Quei botti che si aspettavano da tanto tempo oppure quelli che promettono di essere delle sorprese inaspettate. E poi ci sono quelli che, puntuali come orologi svizzeri, si presentano all’appuntamento annuale volendo confermare la propria leadership in un genere ben preciso.

E’ anche il periodo in cui tutte le testate giornalistiche di settore e certi siti autorevoli sfornano classifiche, editoriali e opinioni a riguardo. Ci casco anche io, non sempre e non puntualmente, ma è bello condividere con te i miei punti di vista, con la speranza di farti scoprire o rivalutare un titolo che ti sei perso, hai sottovalutato, ti hanno sconsigliato (siano stati amici, youtubers o siti “grossi”).

Ma non è di quello che, oggi, voglio parlare. Come si evince dal titolo, voglio soffermarmi sul valore di certe etichette che, fin da gennaio (come nel caso di quest’anno) o da marzo per i più raffinati, vengono affibbiate al ritmo di un titolo al mese. Nello specifico mi riferisco all’etichetta di “gioco dell’anno”. Se tutti i giochi pubblicati, mese dopo mese, fossero degni di questa etichetta, allora non lo sarebbe nessuno, sbaglio? E ancora devono arrivare i ritardatari: Battlefield V e Super Smash Bros. Ultimate, senza considerare gli “indie” più o meno virgolettati, come Hollow Knight, Dead Cells, Celeste, tanto per citarne qualcuno, che stregano per la loro somma delle parti.

Si è fatto un gran parlare di Far Cry 5, di Detroit: Become Human, God of War, Monster Hunter World, Assassin’s Creed: Odyssey, Call of Duty: Black Ops IV, Spider-Man, Forza Horizon 4, Octopath Traveler, Kingdom Come: Deliverance e sicuramente ne sto dimenticando tanti. Per ogni titolo di questi citati, ho letto o sentito qualcuno che ha gridato al “gioco dell’anno”. Avevo scritto qualcosa di simile a ridosso dell’uscita di God of War, chiedendomi cosa sarebbe accaduto all’arrivo di Red Dead Redemption 2 o Cyberpunk 2077. Avevo ragione.

Ad aprile, l’indiscusso ed indiscutibile gioco migliore dell’anno era lui: God of War.

Ieri il gioco dell’anno era God of War ed oggi Red Dead Redemption 2: entrambi sono usciti in questo 2018 strapieno di titoli dalla qualità altissima. La gente dimentica in fretta, troppo in fretta per i miei gusti.

Entrambi i titoli, sono pronto a scommetterci, al di là dei votoni e degli elogi, hanno centinaia di migliaia di persone che li apprezzano, certamente, ma non li esaltano così esageratamente e ritengono che “il gioco dell’anno” sia un altro gioco, in barba alle più alte medie voto del metacritic, dei record di vendite, di tutta la fuffa commerciale che si vuole esaltare.

Ma ancor più alta è la percentuale di persone che, pubblicato il “gioco del momento”, si dimenticano del recente passato, fanno tabula rasa, come se venissero traumaticamente lobotomizzate. Tutto questo mi lascia molto perplesso.

Presto scriverò in merito ad un’altra etichetta, abusatissima, svalutatissima. Svalutata quanto lo è ormai il 10 in pagella che fiocca e scoppietta come pop-corn quando arriva quella che ormai definisco “pornografia poligonale”. Quell’esaltazione barocca dei poligoni, dei dettagli, delle texture in alta definizione, del bump mapping coatto, del tripudio di effetti particellari, del “realismo” e “fotorealismo” costantemente ricercati per far somigliare i videogiochi ai kolossal del cinema. L’etichetta del “Capolavoro”.

Campione di voti, campione di incassi, campione di consensi e la più alta media voto dell’anno. Il gioco migliore del decennio. Ma è oggettivamente così?

Queste pratiche di giudizio di ultima generazione, personalmente, non le comprenderò mai. Arrivederci a Kingdom Hearts 3, Cyberpunk 2077, The Last of Us 2, Death Stranding e tutti gli altri.

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